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Andrea Morzenti

Il fallimento di Matteo Renzi


Nel prossimo fine settimana (18, 19, 20 ottobre 2019) si terrà a Firenze la decima edizione della Leopolda, la kermesse renziana.

Anche questa volta, come le altre volte del resto, non ci sarà il simbolo del Partito Democratico; ma nessuno più potrà farà polemica (anche) su questo. Ci sarà invece il simbolo di Italia Viva, il nuovo partito, movimento, casa, fondata da Matteo Renzi in scissione dal Partito Democratico.

Un nuovo inizio, un nuovo cammino. Perché il primo si è interrotto.

 

Matteo Renzi è sicuramente un caso da studiare. E non solo perché, come è connaturato in un leader forte, o lo ami o lo odi. Ma perché molte cose fatte dal suo governo, pur assolutamente maggioritarie nel Paese e attese da anni, sono state bocciate non tanto nel merito ma perché fatte (e comunicate male) proprio da lui.

Un carissimo amico, antirenziano fino al midollo, mi raccontava di una scuola della sua città. Voleva iscriverci suo figlio, la Preside è una sua amica (pure lei antirenziana) ed è bravissima, ma gli insegnanti arrivano sempre a scuola già iniziata e i migliori poi se ne vanno. Mi raccontava, il mio amico, che la Preside non ha poteri, deve sottostare a decisioni del Provveditorato e agli umori degli insegnanti, non può premiare i migliori e fare bella la sua scuola come le piacerebbe. Gli ho chiesto: conosci il tentativo renziano di cambiare la scuola? Quella che è stata comunicata con #LABUONASCUOLA? Poi ci siamo salutati, aveva fretta, doveva portare suo figlio in un'altra scuola, più distante.

E che dire della riforma costituzionale? C’era dentro (forse un po’ troppo) tutto quello di cui si parla da decenni nei convegni degli intellettuali: superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, politiche attive del lavoro statali, governo più autorevole pur sempre dentro la cornice di una repubblica parlamentare, abolizione del CNEL, … E niente, al referendum è stato tutto bocciato, altro che #BASTAUNSÌ. Poi proprio in questi giorni, il Parlamento ad ampissima maggioranza ha votato il taglio secco del numero dei parlamentari; ma questa è un’altra storia tutta ancora da scrivere.

E nel diritto e mercato del lavoro? Tutti (o quasi) concordi i giuslavoristi: l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori era da superare, la causale dei contratti a termine un formalismo che genera solo contenzioso senza tutelare realmente i lavoratori, il contratto a progetto massima fonte di abusi, la rigidità del mutamento delle mansioni un freno allo sviluppo delle aziende che cambiano alla velocità della luce, gli incentivi economici alle assunzioni spesso impossibili da ottenere per la burocrazia statale, la necessità di rafforzare (se non addirittura creare da zero) una forte rete di politiche attive del lavoro. Il #JOBSACT aveva dentro le soluzioni a tutto questo, alcune certo da affinare e migliorare dopo averle testate. È diventato per l’opinione pubblica solo la riforma che ha liberalizzato i licenziamenti. Su molti aspetti politica a magistratura stanno già riportando indietro le lancette della storia.

C’è poi il tema della legge elettorale. Obiettivo favorire la governabilità magari un po’ a scapito della rappresentatività. L’idea, insomma, di conoscere il vincitore la sera stessa delle elezioni. Renzi, che iniziò a lavorarci prima (solo) da segretario del Partito Democratico e poi (anche) da Presidente del Consiglio, portò a compimento l’#ITALICUM, una legge proporzionale a liste bloccate corte sul modello della legge elettorale spagnola che prevedeva, nel caso in cui nessuna lista avesse raggiunto il 40%, un ballottaggio nazionale tra le prime due per aggiudicarsi la maggioranza dei seggi alla (sola) Camera (visto che il Senato, con la riforma costituzionale, sarebbe divento eletto di secondo livello). L’Italicum, ormai è storia, è stato ritenuto parzialmente incostituzionale dalla Consulta. Ora il Partito Democratico con Orlando propone una legge elettorale spagnola e gli esperti del partito propongono un doppio turno non di collegio ma su base nazionale per "arginare il pericolo Renzi", facendo sberleffi del diabolico combinato disposto di bersaniana memoria.

Tanti temi portati a compimento da Renzi, altri ne potrei aggiungere, da molti osteggiati e combattuti non tanto nel merito ma sulla sua persona. Gli unici temi renziani che si salvano, ma che in pubblico nessuno gli riconosce apertamente, sono la fatturazione elettronica e la dichiarazione di redditi precompilata, nati entrambi addirittura nel covo della Leopolda. Ma questi non si criticano perché utili ai governanti di qualsiasi colore, in quanto riducono l’evasione fiscale (leggo di miliardi di euro), consentendo così maggiori spese e evitando le procedure di infrazione UE.

Scuola, riforme costituzionali, mercato del lavoro, legge elettorale sono però un fallimento anche di Matteo Renzi. Temi condivisi, temi fondamentali, temi attesi. Approvati in Parlamento, ma poi cassati dalla politica, dalla magistratura e dall'opinione pubblica (qui non dico della stampa, di RCS e dello stantio odore di massoneria” tanto caro a Ferruccio de Bortoli). Qualcosa, dirlo è pure ovvio, non ha funzionato. Ora, a iniziare dalla Leopolda 10, quel qualcosa deve cambiare. Il sogno maggioritario, incarnato nell’Ulivo di Romano Prodi, è ormai al tramonto. Prendiamone atto, non siamo stati capaci, e risentiamoci, dovesse servire, fra una ventina d’anni.

L’Italia non si riesce a cambiare così. I fatti, con la loro oggettività, sono lì a dimostrarlo. Le riforme devono nascere nel Parlamento. Le vere alleanze, forti solo su temi specifici e non su tutto lo scibile elettorale, non nascono dentro gli Ulivi, le Unioni, i Partiti Democratici, le Case e i Popoli delle Libertà. È ora di tornare ad una legge proporzionale pura, che abbia solo una seria soglia di sbarramento. Si vota, le alleanze si fanno poi in Parlamento e non più prima delle elezioni, che tanto non serve a nulla. E le riforme, se condivise, si fanno per durare decenni e non una parentesi.

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